L’hanno riconosciuta dai suoi vestiti Frozan Safi, 29 anni, docente di economia ed attivista per i diritti delle donne, uccisa dai talebani tre settimane fa. Il volto irriconoscibile a causa dei proiettili che le hanno scaricato addosso. È caduta vittima di un tranello, una trappola ordita ai suoi danni da un gruppo di guerriglieri che hanno finto di offrirle sostegno per lasciare il paese. Cercava di scappare, Frozan, perché sapeva di essere una personalità nel mirino del governo dei talebani: l’ennesima vittima femminile della loro ferocia. E, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che dal 1999 ricorre ogni anno il 25 novembre patrocinata dalle Nazioni Unite, la storia di Frozan è emblematica per ricordare quanta strada ci sia ancora da fare. L’associazione Binario 15 ha raccolto le testimonianze di alcune donne afgane che vivono in Italia e che ora devono fare i conti con un doloroso ritorno al passato del loro Paese, dopo che i talebani sono di nuovo al potere.
La condizione femminile in Afghanistan, come racconta Anis, è già cambiata in peggio dallo scorso agosto. “I matrimoni combinati oggi sono una triste realtà che sta nuovamente diffondendosi. Quella delle spose bambine, poi, è una piaga che, nonostante sembrasse ormai debellata grazie ai miglioramenti dei costumi negli ultimi venti anni, affligge la società afgana regolata dalle leggi imposte dai taliban”.
Ma è anche la stessa quotidianità delle donne a risentire del nuovo/vecchio corso. Tutte quelle libertà faticosamente conquistate, sono di colpo state rimesse in discussione. “Alle ragazze non è più consentito andare a scuola e il lavoro femminile è stato vietato”, spiega Zakia aggiungendo che “negli ultimi tempi molte famiglie si sostenevano proprio grazie al solo impiego di una donna e ora non sanno come andare avanti”. Insomma, le lancette della storia, in Afghanistan, sono state riportate indietro, a un tempo in cui nascere donna significava non poter accedere all’istruzione, non avere diritto a un’indipendenza economica e a non avere la facoltà di decidere quale uomo amare e sposare. “Anche lo sport è di nuovo precluso a noi donne: non possiamo giocare a pallavolo, a calcio… Tutte attività che avevano contribuito a dare gioia, speranza e consapevolezza alle ragazze afghane”, racconta ancora Zakia.
Quello che spaventa di più, poi, è che il processo di emancipazione femminile che era in corso e che si è bruscamente interrotto, non aveva ancora potuto modificare alla radice la mentalità e la cultura popolare del Paese. Come spiega bene Nazifa, “spesso le donne in Afghanistan non sono in grado di capire la gravità dei soprusi che subiscono, perché vengono educate sin da piccole a convivere con la prepotenza e la volontà degli uomini. Ti manca la capacità di riconoscere una sopraffazione quando sin da bambina ti viene inculcato che l’unica cosa che puoi e devi fare è cucinare, pulire e servire i maschi della famiglia. Spesso da giovanissima, in alcuni casi anche a sette anni, vieni venduta a tuo marito e non fai altro che servirlo per il resto della tua vita, perché questa è la tradizione”. Fare in modo che i diritti acquisiti non vadano perduti e che i talebani non riescano a instaurare nuovamente il loro regime di terrore senza essere contrastati, è l’obiettivo delle tante donne e attiviste afghane. Non farsi schiacciare da intimidazioni e assassini mirati, come quello di Frozan, è il compito difficile ma necessario da svolgere per questa generazione di donne.
E a Kabul, infatti, mogli, madri e giovani studentesse manifestano continuamente per ribadire la loro voglia di non farsi inghiottire di nuovo dall’oscurantismo, e lo fanno sfidando la tracotanza e il potere dei talebani. Queste donne non possono essere lasciate sole, perché hanno bisogno di aiuto da Europa e Stati Uniti che, dopo il ritiro delle truppe sembrano aver dimenticato l’Afghanistan. “Ora le afghane hanno bisogno di aiuto, di empatia, di sostegno”, dice Rada a questo proposito. “Se abbiamo paura, i talebani avanzeranno, se non abbiamo paura i talebani si ritireranno. Se i talebani attaccano, picchiano, molestano le donne e le vendono, è perché il mondo tace. L’unica strada rimasta per noi donne è la resistenza. Dobbiamo far sentire la nostra voce per scuotere il mondo”, prosegue Rada.
Lotte fondamentali, queste, per garantire un futuro alle prossime generazioni. “Non riesco ad accettare che le mie figlie non possano studiare, non possano accedere ad un’istruzione adeguata – aggiunge ancora Fareba. – Da donna mi sento di dire solo che non possiamo mollare ora: sappiamo come difendere i nostri diritti civili e questo è il momento di lottare, senza paura, per il futuro dei nostri figli”.
Non sarà una morte vana quella di Frozan se servirà a dare coraggio e voglia di combattere alle altre donne afghane, invece di ridurle al silenzio come auspicano i talebani. Non sarà una morte vana se la sua storia sarà raccontata e mai dimenticata.
Non può essere una ricorrenza come le altre quella del 25 novembre, nell’anno in cui l’Afghanistan è tornato nelle mani insanguinate dei talebani e le sue figlie, da sempre martoriate, sono costrette nuovamente a vivere prigioniere di una folle ideologia che le vuole cittadine di Serie B.
di Chiara Capuani