In Iran li chiamano “afghani”. In Afghanistan sono considerati ormai “iraniani”. I giornali li chiamano “clandestini”, specificandone la nazionalità solamente quando si tratta di notizie da vetrina, per distinguerli dalle altre migliaia di migranti che attraversano il nostro paese. C’è chi ha imparato a chiamarli “mosaferan”, che nella loro lingua vuol dire “viaggiatori”, termine decisamente più politically correct ma che cristallizza la loro condizione momentanea, come se questo viaggio non dovesse mai terminare.
Ma come definirli allora? Sono semplicemente ragazzi di origine afghana che per mesi perdono qualsiasi tipo di identità. Non hanno un documento che conservi traccia della loro storia: non hanno quindi una nazione, un nome né un’età. Sono come invisibili. Spariscono da dove hanno vissuto la loro breve vita per ritrovarsi a dichiarare la loro presenza a migliaia di chilometri di distanza. Distanza certificata da un freddo timbro, ma che in realtà è insignita di emozioni fortissime. Piccoli uomini che affrontano un viaggio di mesi a rischio della loro vita, decidendo dove andare in corso d’opera o avendo già chiaro in testa la loro meta. Meta che diventa inarrivabile se nel loro cammino vengono identificati dalle forze dell’ordine attraverso il rilevamento delle impronte digitali.
Tra un punto di partenza e una destinazione, scelta o imposta che sia, c’è qualcosa che un inerme timbro congela: un viaggio esasperante, emozionante e difficile durante il quale rimanere anonimi e inosservati, in cui la costante è la paura di essere fermati prima di raggiungere la propria meta. Per questo non lasciano traccia del loro passaggio. Binario 15, però, intercetta questo passaggio e da anni lo racconta attraverso post scritti di proprio pugno da questi ignoti, messi nero su bianco e lanciati come un messaggio in una bottiglia durante i nostri laboratori a loro dedicati. Mujtaba è uno di loro.
“Ora sono qui in Italia – scrive – Ho attraversato illegalmente 4 paesi, non per soldi, non per piacere né per turismo. Ma solo per avere la possibilità nel mio futuro di andare all’università. Ho passato 52 ore in una scatola chiusa. Cosa mi ha fatto sopravvivere tutto quel tempo? Pensare alla mia famiglia, ai miei genitori e la fede in Dio. Spero che nel futuro potrò dare un senso alla mia vita”.
Zija invece ci ha offerto una saggezza invidiabile: “Sono stanchissimo, in questo carcere che si chiama vita. Ma le bellezze di questo mondo sono nelle nostre mani”.
Feruz ci ha lasciato la sua speranza: “Dall’Afghanistan all’Italia ho vissuto tanti momenti tristi. Ma sono certo che Dio mi regalerà momenti migliori, da oggi in poi”.
Hossein invece ci lascia un messaggio che è più di un’impronta, ma è qualcosa che a noi di Binario 15 fa sentire un po’ orgogliosi perché sappiamo che dove gettiamo tanti semi, un barlume di verde ogni tanto si vede in questo terreno arido che è l’Europa. Ci ha lasciato scritto: “Ciao. Quando sono arrivato in Italia mi sono bagnato perché pioveva tanto, ma Roma è davvero bellissima. Mi ci sono perso perché è una città grande. In questo momento stiamo facendo la lezione di inglese. Sento di aver imparato tanto e mi sono anche divertito costruendo dei giochi. È stato bello”.
Questi e tanti altri messaggi testimoniano il passaggio di persone, ragazzi, esseri umani, gente che ha voglia di vivere e che quindi non può essere invisibile. E per noi non lo sarà mai.