La missione Isaf in Afghanistan si è conclusa lo scorso 28 dicembre dopo 13 anni di permanenza dei militari della Coalizione internazionale (della quale l’Italia fa parte dal 2003) nel tormentato Paese dell’Asia centrale scosso da più di 30 annidi violenze iniziate dopo l’invasione sovietica avvenuta negli anni ’80. Da allora le varie etnie che compongono il complesso mosaico della nazione si sono combattute in una terribile guerra civile culminata con la presa di Kabul e di gran parte del Paese da parte degli studenti islamici talebani. Era poco prima dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, il 7 ottobre dello stesso anno iniziarono i primi bombardamenti della Coalizione con l’operazione “Giustizia infinita”, poi ridefinita “Libertà duratura”.
Il seguente attacco terrestre combinato insieme alle forze dell’Alleanza del Nord (che comprendeva un esercito irregolare composto da varie etnie che si opponevano ai talebani), riuscì sostanzialmente a liberare solo Kabul e dintorni, con i talebani che si rifugiarono sulle montagne o nel vicino Pakistan continuando fino ad oggi a minacciare la stabilità del Paese con attacchi terroristici senza soluzione di continuità.
L’intervento fu inizialmente basato su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 12 settembre del 2001, nella quale si concordava sulla “necessità di combattere con tutti i mezzi il terrorismo”, senza però alcun accenno esplicito all’autorizzazione di un intervento militare. L’intervento fu considerato legittimo in applicazione dell’art. 51 della Carta dell’ONU che stabilisce il diritto di autodifesa. Fu la prima volta nella storia che i governi si appellarono all’art 51 per giustificare un attacco militare contro un intero Paese per il solo fatto che vi aveva trovato rifugio un gruppo di terroristi.
Isaf fu costituita su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite solamente il 20 dicembre 2001 con il compito di sorvegliare la capitale Kabul e la vicina base aerea di Bagram,oltre che per proteggere il governo transitorio guidato da Hamid Karzai. Durante i primi due anni l’ISAF non operò oltre i confini della città di Kabul: l’incarico della sicurezza nel resto del territorio nazionale fu affidato al neocostituito Esercito Nazionale Afghano. Solo il 13 ottobre 2003 il Consiglio di Sicurezza votò per estendere il mandato dell’ISAF anche al resto dell’Afghanistan.
La cerimonia di commiato della coalizione si è tenuta in gran segreto a Kabul per il timore di nuovi attentati da parte dei talebani che non hanno mai accettato di essere rappresentati dal filo occidentale Karzai,confermato Presidente nelle prime elezioni libere del 2004, o da Ashraf Ghani che lo ha sostituito nel luglio 2014. La fine della missione non comporta però la fine della presenza di truppe straniere nel paese. Questo a seguito della firma con Usa e Nato del Resolute Support, progetto di durata decennale che prevede la presenza di circa 13.000 soldati che si impegnano ad assistere e a formare le forze di sicurezza afghane e nello stesso tempo garantiscono ai servizi anti-terrorismo americani la possibilità di continuare ad operare nel Paese. E’ chiaro che a queste condizioni i talebani continueranno ad opporsi a ogni forma di governo.
Oggi, dopo la sua chiusura, ci si chiede da più parti se Isaf abbia avuto successo oppure se l’Afghanistan oggi si trovi in una condizione morale e materiale peggiore di prima. La missione è costata migliaia di vittime sia tra i soldati appartenenti alla coalizione sia tra militari, civili e ribelli afghani. Ricapitolando si parla di circa 3.500 morti tra i soldati della coalizione internazionale, di cui 53 italiani.
A queste cifre, già di per sé impressionanti, vanno aggiunti i numeri ancora più ampi delle vittime tra le forze di sicurezza afghane, obiettivi predestinati degli agguati talebani, e soprattutto dei civili, spesso caduti a causa degli errori militari e delle bombe poco intelligenti sganciate dagli aerei delle forze occidentali a caccia di terroristi sui villaggi inermi. Ad oggi risultano circa 15 mila vittime tra le forze di sicurezza afghane con circa 5000 morti nel solo 2014 a dimostrazione del trend crescente delle vittime nell’ultimo anno. I dati sulle morti civili sono ancora peggiori: secondo le stime del progetto Costs of war, la guerra ha provocato più di 20 mila morti. Anche in questo caso è proprio nell’ultimo anno che si sono registrati i numeri maggiori con un aumento delle vittime pari al 19% rispetto al 2013. Se andiamo poi ad esaminare in dettaglio il dato delle donne e dei bambini uccisi, nell’ultimo anno scopriamo che le percentuali sono aumentate rispettivamente del 12% e del 33%. Sono stati per lo più vittime delle forze anti-governative, a confermare il fatto che l’Afghanistan è ancora una Paese in preda al caos.
Anche i costi economici della guerra sono stati esorbitanti. La missione in Afghanistan sino al 2014 sarebbe costata circa 1.000 miliardi di dollari, mentre secondo uno studio della Brown University il costo totale delle tre missioni militari in Afghanistan, Pakistan e Iraq supera i 4.400 miliardi di dollari, una cifra di poco inferiore al Pil del Giappone, terza potenza del pianeta. I 40 miliardi di dollari di aiuti versati dalla comunità internazionale dal 2001 ad oggi non hanno migliorato la condizione del popolo afghano. La percentuale della popolazione che vive sotto la soglia di povertà estrema è passata infatti dal 23% al 36% mentre l’aspettativa di vita è calata da 46 a 44 anni, il tasso di alfabetizzazione è sceso dal 31% al 28%, la mortalità infantile è passata da 147 ogni 1000 nati a 149 ogni 1000.
Secondo il vice presidente della delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con l’Afghanistan, Pino Arlacchi, la quasi totalità degli aiuti internazionali non è andata nelle tasche dei bisognosi ma è servita a rimpinguare le tasche dei governanti corrotti al seguito di Karzai o gli stipendi degli operatori stranieri delle organizzazioni internazionali e delle Ong.
Durante l’occupazione la produzione di oppio è aumentata notevolmente rispetto al periodo talebano, passando dai circa 80 mila ettari coltivati ai tempi del Mullah Omar ai 123 mila ettari di oggi. Di conseguenza è aumentata l’esportazione di eroina così come il suo consumo, essendo ormai circa 350 mila i consumatori afghani. Anche il dato sui rifugiati e sugli sfollati, che riguarda da vicino Binario 15, ci fa capire come i problemi dell’Afghanistan siano ben lontani dall’essere risolti. Solo negli ultimi cinque anni, secondo le stime dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati (UNHCR), ci sono stati circa 730 mila sfollati pari quindi ad una media di 400 al giorno.
Il nostro punto di vista è una semplice conseguenza di questi dati: oggi più di ieri il mondo è in un equilibrio precario, pervaso da mutamenti geo-politici immani che hanno portato alla nascita di uno stato terrorista in Iraq e in Siria che si ricollega idealmente alle glorie dell’antico Califfato arabo-islamico, ma che diffonde e perpetra assassinii barbari in tutto il mondo. In Europa e Occidente l’odio anti-islamico sta rinfocolando nelle aree politiche destrorse, neofasciste e populiste che aumentano i loro consensi anche in seguito alla crisi economica; il pericolo del terrorismo fondamentalista è oggi più vivo che nel settembre 2001, quando tutti capimmo che forse era iniziata una nuova epoca. In generale ci sembra chiaro che le risposte finora date dalle grandi potenze occidentali sono state assolutamente inadeguate, se non addirittura controproducenti.
G. S.