di Elisa Franzan
Abbiamo incontrato lo scrittore e giornalista Alessandro Leogrande che ha parlato di Binario 15 nel suo ultimo libro “La frontiera”, intenso e coinvolgente intreccio di storie e testimonianze. Un tentativo di dare una forma ad una entità sfuggente e dinamica come il concetto di frontiera: una frontiera da difendere, da raggiungere, da oltrepassare, da chiudere, a seconda dei punti di vista.
Alessandro, come hai conosciuto l’Associazione Binario15?
Ho conosciuto la vostra Associazione durante un incontro presso Asinitas. Volevo occuparmi della questione della frontiera europea orientale e dei migranti afghani e ho chiesto a Lorena Di Lorenzo (Presidente di Binario 15 ndr) di poter incontrare alcuni mediatori afghani da intervistare per il mio libro. I ragazzi transitanti sono ancora troppo coinvolti nella dimensione del loro viaggio. I mediatori, invece, hanno concluso il loro viaggio e riescono più facilmente a raccontare la propria esperienza. Come nel caso di Aamir (nome di fantasia) che è stato uno dei primi migranti a intraprendere la rotta balcanica e che ha condiviso con me lo scritto delle sue memorie di viaggio.
Conoscendo la realtà di Binario15 e le altre realtà associative che si occupano di migranti, credi che ci siano abbastanza risorse?
Possiamo dire che l’Italia è in una fase di secondo livello: è ancora un paese di frontiera ma ci sono anche le seconde generazioni dei migranti che si sono stabiliti qui molti anni fa. Esistono punte di eccellenza nell’accoglienza grazie a persone e piccole associazioni che hanno fatto progetti molto avanzati nel campo della didattica, della mediazione culturale e del sostegno psicologico.
E le carenze più evidenti?
Le carenze più evidenti sono quelle istituzionali. Ciò che è accaduto al Centro Baobab è paradigmatico: l’associazionismo ha risposto all’assenza delle istituzioni che paradossalmente sono intervenute solamente per chiudere la struttura senza dare alternative adeguate! E poi gli errori di associazioni troppo autoreferenziali che non riescono ad uscire dall’ottica del migrante- vittima. Spesso impostano le loro attività su un eccessivo assistenzialismo o usano le storie e le immagini del dolore per campagne di comunicazione e fundraising che non fanno altro che reiterare quest’idea riduttiva e spesso distorta.
Il tuo libro potrebbe essere considerato “di parte”. Come si può dialogare con chi la pensa diversamente sul tema delle migrazioni o con forze politiche estremiste come Alba Dorata?
Nel libro non volevo occuparmi dei fallimenti e dei successi dell’integrazione, volevo solo raccontare storie di frontiera. La frontiera é chiaramente un libro schierato e vuole avere un respiro internazionalista. Nel libro non ci sono solo i buoni, ci sono anche i cattivi e le ambiguità delle fasce di mezzo: i passeur, i baby scafisti, le violenze che si scatenano all’interno di un barcone. L’importante è farsi domande sulle cause che spingono a tutto questo, e le cause non sono solo nell’occidente cattivo, la situazione è molto più complicata. D’altronde i libri nascono da un’esigenza di chiarezza, chissà come verrà raccontato questo momento storico tra 100 anni!
Nel libro spiccano alcune figure per le quali spenderei la parola eroiche: Alganesh, la donna che va a salvare i prigionieri dei trafficanti di uomini nel deserto del Sinai. O il coraggioso uomo eritreo che dopo il naufragio al largo di Lampedusa arriva sull’isola per fare da mediatore per i connazionali superstiti nonostate l’alto rischio di essere intercettato dal regime dal quale è fuggito. O ancora il pescatore Costantino che durante le tragiche ore del naufragio del 2013 afferra corpi intrisi di gasolio che gli sfuggono dalle braccia. Tu che li hai incontrati, ci puoi dire che persone sono?
Persone assolutamente normali, ma i racconti sono affascinanti, storie un po’ incredibili, a volte tremende. Figure come Alganesh o don Mussie non le conosceva quasi nessuno in Italia, io casualmente ho incrociato le loro storie occupandomi della tremenda vicenda del Sinai. Della questione eritrea non se ne sapeva nulla fino al 2013, in Italia solo Avvenire e Radio Vaticana se ne erano occupate perché è stato un sacerdote a sollevare il velo dell’indifferenza. Sembra che della complessità di queste storie che si intrecciano con le vicende storico-politiche internazionali nessuno sappia niente di niente! Lo spirito del libro parte dall’assuefazione che deriva da un vuoto alimentato dalle frasi fatte e dalla retorica che descrive il fenomeno migratorio come crisi umanitaria o emergenza. Conoscere è difficile, anche io non so niente di tante cose. È complicato, bisogna sforzarsi di spiegare le cose tenendo bilanciati il piano umano del racconto e quello storico-politico.
Riconoscendo nel fenomeno migratorio anche le responsabilità del colonialismo italiano, per esempio?
La drammatica vicenda eritrea, le attualissime vicende della Libia ci parlano di una storia che abbiamo voluto rimuovere. Dobbiamo riconoscere che il fenomeno coloniale italiano è stato descritto in termini molto edulcorati: è il solito ritornello degli “italiani brava gente”. Il dibattitto non arriva al pubblico, ma per capire dobbiamo riuscire a guardare anche agli errori con uno sguardo più lucido. Molte volte il perseguitato mutua le forme di violenza dal suo persecutore: è simbolico il fatto che alcuni campi di concentramento del regime eritreo sorgano nelle stesse sedi di quelli italiani o che alcune forme di tortura abbiano nomi nostrani come Ferro, Otto o Gesù Cristo.
Per concludere, guardano all’attualità, alla chiusura della frontiere, ai muri che si alzano e al cambio delle rotte migratorie, all’Europa che non riesce a tenere un punto condiviso, cosa credi possa fare l’Italia delle Associazioni?
In Italia c’è un dialogo tra le associazioni che condividono un sapere comune cosa che non è avvenuta in Grecia o in Slovenia, le nuove porte dell’Europa. Se ci pensiamo bene sono micronazioni che si trovano ad affrontare un flusso consistente di persone e sono totalmente impreparate ad accoglierle. C’è da fare un lavoro di scambio, di confronto, si devono creare delle reti di associazioni e in questo l’Italia potrà avere un ruolo importante.
Grazie ad Alessandro Leogrande per gli ottimi spunti di riflessione che ha offerto il suo libro. Ci auguriamo che l’associazionismo europeo sappia fare rete condividendo il suo vasto bagaglio di esperienze con i paesi che oggi sono più in difficoltà.
Alessandro Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, nov. 2015
http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/la-frontiera/