Abbiamo chiesto ad una giovane donna che frequenta i nostri incontri di raccontare la sua esperienza di quarantena forzata e ne è venuta fuori una bella storia. Perché le tragedie accadranno sempre, il nostro compito è semplicemente quello di trovare un senso a tutto questo e magari trarne un insegnamento.
Venti più venti quarantena, una risatina… Chiudo Facebook, apro Instagram e guardo le storie create dalle mie amiche. Sembra una gara di cucina: una torta di mele, il bolani (una frittata tradizionale che si prepara con ingredienti semplici: farina, acqua, olio e qualche verdura per riempirlo). Quasi quasi stasera faccio il bolani, penso. Anche se l’idea di continuare a rimanere seduta su questo divano vicino alla finestra aperta a sentire la melodia della pioggia primaverile insieme alle risate dei miei figli che giocano in giardino mi sembra molto piecevole. Hanno le galosce e gli impermeabili addosso e corrono intorno al loro papà. Nonostante sia stato sempre presente da quando sono nati non li ho mai visti così vicini come adesso, in questo periodo di emergenza dovuta al Covid-19. In fin dei conti anche la quarantena può portare qualcosa di buono, rifletto.
Guardo sul tavolo davanti a me dove c’è un libro accanto ad una teiera e ad una tazza. Da quanto non leggevo un libro?! Forse un anno? E il tè? L’ho sempre bevuto ma mai così tranquilla e senza tutti quei pensieri e l’ansia che mi facevano addirittura dimenticare cosa stavo bevendo. La vita frenetica di tutti i giorni mi ha impedito per tanto tempo di gustare queste cose semplici. E lo stesso vale per mio marito che prima dell’emergenza ogni mattina si alzava prima che io e i bambini ci svegliassimo e andava al lavoro per tornare la sera all’ora di cena.
Questi pensieri mi fanno alzare dal divano. Vado in cucina, prendo un vassoio e mi preparo un’altra tazza insieme ai cioccolatini che piacciono un sacco ai bimbi. Esco nel giardino che non avevo mai apprezzato come adesso e mai avrei pensato che un giorno mi sarei sentita così fortunata per una cosa del genere. Da tanto non metto una storia su Instagram e senza pensarci due volte faccio un video. Non passa nemmeno mezz’ora che ricevo tanti messaggi da parte di parenti e amici felici di sapere che stiamo bene.
L’Italia, il luogo in cui vivo ormai da quasi nove anni, adesso è diventata famosa per motivi diversi da quelli per cui lo era fino a due mesi fa: per il numero di morti troppo alto, persone che ogni giorno vengono a mancare da questo bel paese. Penso ai laghi e alle montagne che ho visitato durante questi anni; a tutta la bellezza di questo paese che ora sembra nascosta sotto la grande tragedia che sta affrontando. Ma quando finirà? Finirà?
Questo pensiero mi fa sudare e mentre sono immersa in queste riflessioni squilla il cellulare. È una persona che conosco da tempo, un’amica, chi non è nemica può essere un’amica. Anche se per chi come me vive lontano dal proprio paese è difficile trovare amici come quelli che abbiamo nel nostro paese di origine dove vivono anche i nostri parenti. Rispondo. Appena riattacco non sono più la stessa persona e anche i miei pensieri sono cambiati. È una mamma molto giovane con due bambini piccoli. Un anno fa io e la mia famiglia siamo stati invitati a casa loro e abbiamo passato una bellissima serata nel suo monolocale. Quella sera a cena mi sono resa conto che per essere gentili e generosi non serve avere tanto. Di quella sera ricordo solo cose belle: l’ospitalità unica, gli sguardi e i sorrisi.
Sorrisi che al telefono pochi minuti prima sembrano scomparsi. “ Mio marito ha perso il lavoro e non gli hanno pagato neanche lo stipendio dell’ultimo mese”, mi confida la mia amica. All’improvviso mi sento come spezzata. Penso ai loro bambini, una di appena un anno, e una domanda mi passa per la testa: da quanto non fate uscire i bambini? Ma non glielo chiedo. E poi, mentre sto per chiederle se hanno bisogno di aiuto, lei mi anticipa: “volevo farti una domanda ma non so… lascia stare”. E io “dai dimmi”. “Non è niente di importante, non ci pensare”, mi fa lei. “Se non me lo dici poi stanotte non dormo, sai come sono fatta”, le dico io. “Va bene ma prometti che rimarrà tra noi: voi avete fatto la domanda per i buoni di spesa? Perché noi li abbiamo chiesti ma non è ancora arrivato niente. Volevo chiederti se sai se li danno anche a noi stranieri…”.
Ripenso alla sua generosità e mi chiedo che senso abbia tutto questo. Penso al giardino e al cibo che ho nel frigorifero e capisco che questo non è il momento di pensare a quanto siamo fortunati. È il momento di volgere lo sguardo verso chi nel piatto non ha niente e magari non riesce a chiedere aiuto per orgoglio o vergogna. Quante persone in giro saranno nelle stesse condizioni della mia amica? Quanti non riescono a chiedere aiuto?
Penso al mio paese, l’Afghanistan, dove molti devono scegliere tra morire e morire. A tutti quelli che non si lamentano di dover stare a casa perché una casa non ce l’hanno o ne sono rimaste solo macerie. La speranza è l’ultima a morire, dicono. E forse è proprio così, anche nell’epoca del corona virus che forse non è veramente il nemico. Tornare ad essere umani davvero, forse è questo l’insegnamento.
di F. V.