Pubblichiamo un articolo scritto dall’Associazione Storie di Mondi Possibili sul laboratorio di storytelling realizzato in collaborazione con il gruppo donne di Binario 15.
Alla fine del 2020, dopo un anno difficile per i nostri workshop di storytelling a causa della distanza, abbiamo deciso di imbarcarci in una nuova avventura: un laboratorio a distanza insieme ad un gruppo di donne afghane che vivono nella città di Roma. Si trattava di una nuova sfida: sia perché ci trovavamo a confrontarci con un gruppo di sole donne non italiane sia perché dovevamo fare tutto questo a distanza. Le parole, in questo caso, erano davvero l’unico filo che avrebbe connesso tutte, nonostante fossimo ognuna a casa propria. L’idea era quella di proporre un laboratorio dove riflettere, a partire da sé e dalla propria esperienza, su ciò che ci circonda, sulla nostra società e sul mondo che ci circonda (per capire poi se – e come – fosse possibile attivarsi per migliorarlo). Grazie al supporto di Binario 15, associazione che opera con la comunità afghana a Roma, e in particolare le sue donne, siamo riuscite quindi ad organizzare alcuni incontri.
E così siamo partite. In un sabato di fine Dicembre 2020, ci siamo collegate e abbiamo iniziato a conoscerci. Eravamo tutte donne, tranne l’unico uomo ammesso in quanto tra i facilitatori dei nostri incontri. Abbiamo cominciato da un esercizio basilare: la storia del nostro nome. Si trattava di un primo modo per fare amicizia ma anche di avviare quella riflessione su di sé che è il motore che porta poi a riflettere sugli altri e le altre e ad attivarsi rispetto a ciò che ci circonda. I nomi delle donne afgane si mescolavano ai nomi delle italiane di Binario 15 e di Storie di Mondi Possibili. Da qui abbiamo proseguito condividendo alcuni ricordi delle nostre vite, legati alle feste, alle tradizioni, ai giochi, alle ricette. E ancora una volta, le culture del Medio Oriente (Afghanistan e Iran in primis) si mescolavano a quelle italiane (da nord a sud).
Pian piano, siamo arrivate a parlare di argomenti più stringenti per le donne in quanto donne. Durante un incontro, in particolare, abbiamo riflettuto insieme su “ciò che abbiamo imparato” nella vita, dalle cose più banali agli insegnamenti che rimangono scolpiti dentro. Le partecipanti hanno raccontato così dell’apprendimento di alcune abilità come scrivere, dipingere, cucinare, capacità importanti non solo per i loro aspetti pratici, ma come veri e propri modi per esprimersi ed emanciparsi. Ed è qui che è iniziata ad emergere la tematica di genere come spartiacque fondante della propria vita.
Essere donna in un paese come l’Afghanistan comporta un’oppressione lunga una vita e questo emerge chiaramente dai racconti delle partecipanti: “Le donne nel nostro paese sono molto oppresse dagli uomini, gli uomini decidono per la loro vita su cosa devono fare e cosa non devono fare, ci sono pochi uomini che lasciano fare quello che vogliono alle loro mogli. E le donne devono tollerare le cose che gli dicono gli uomini, per esempio: le bambine dopo i 10 anni devono portare l’hijab, stare lontane dai maschi e stare a casa con la madre. Solo poche possono continuare a studiare. Le donne quando si sposano devono soltanto ascoltare il marito e la sua famiglia, stare a casa a badare i bambini e fare la casalinga, non possono nemmeno andare a visitare la propria famiglia senza il permesso del marito”.
“Povertà e guerra tormentano l’Afghanistan e sappiamo quanto è difficile vivere in questo paese dove soprattutto le donne vivono una condizione di totale privazione. A questi problemi per le donne se ne aggiungono altri ancora più gravi come il matrimonio con minorenni, donne e bambine vendute ai loro mariti, matrimoni imposti. Le donne non hanno il diritto allo studio. L’unico loro lavoro può svolgersi solo dentro la casa. Questa condizione sta lentamente evolvendo ma la maggior parte delle donne è destinata ad occuparsi solo della famiglia, dei mariti, dei figli e lo fanno con tutto l’amore possibile”.
“Quando una ragazza iraniana si sposa, deve accettare molte responsabilità nella sua nuova vita. Tante responsabilità e poca libertà. Questo significa che deve mantenere bene la casa, gli ospiti…ha la responsabilità domestica. Mentre l’uomo lavora sempre fuori casa. Succede così che se chiedi aiuto per una mano a casa, ad esempio quando ci sono ospiti, lui ti risponde di no: “Io già lavoro, della casa ti devi occupare tu”. In questa vita non senti neanche l’odore della libertà. Ad esempio, un uomo può andare per la sua strada, noi donne invece no”.
In questo contesto diventa molto importante l’esempio di donne che, in questi paesi hanno lottato per la parità di genere, come Sima Samar. Nazifa racconta del suo incontro con questa donna, come un momento importante della sua vita: “Nel 2002 sono stata una delle prime studentesse diplomate alla “Scuola per Infermiere ginecologhe” fondata da Sima Samar, nella foto ecco il giorno della consegna del mio diploma. Lei è stata la prima donna di etnia Hazara, nata nel 1957, che riuscì a studiare medicina all’Università ed è stata la prima donna a capo del Ministero per la donna nel dicembre 2001, subito dopo la caduta del regime talebano. La conoscevo bene poiché mia sorella era la sua segretaria-assistente. Lei è una donna eccezionale, forte che ha avuto una vita difficile, ha sofferto molto. Durante il regime comunista nel 1984 suo marito è stato portato via e a quel punto si è rifugiata in Pakistan con il figlio e i suoi genitori. E da lì ha iniziato a lottare per i diritti delle donne combattendo tutte le forme di violenza che le donne subivano. Ha costruito il primo ospedale in Pakistan dove le donne potevano andare a partorire e a curarsi, e una scuola elementare per le donne. Ha ottenuto tanti riconoscimenti per le lotte che ha combattuto per le donne in Afghanistan e in Pakistan”. (Nazifa)
Pian piano sono emerse problematiche anche relative alla condizione del popolo afghano: donne che per tanti anni hanno dato sé stesse per i figli e che poi non possono vederli crescere perché costretti a emigrare. O, ancora, donne costrette ad andarsene verso l’Europa (in questo caso l’Italia) e a non poter vedere più la propria famiglia. La condizione di migrante è una condizione esistenziale che si intreccia con l’identità di genere e che viene fuori più volte dai racconti di queste donne.
Nel corso di questi ultimi incontri le donne afghane – che erano partite da una riflessione su sé stesse – hanno anche iniziato a pensare a cosa fare in quanto donne per le altre donne. È nata così l’idea di scrivere una ‘lettera aperta’ dove raccontare collettivamente la condizione di vita delle donne afghane, e cosa si potrebbe fare, come potrebbe migliorare. Il laboratorio di narrazione è diventato così uno strumento per riflettere sulla realtà partendo da sé stesse, e nello stesso tempo un’occasione per lanciare un messaggio al mondo. È un percorso in itinere, un vero e proprio viaggio…che ci auguriamo porti sempre a nuove scoperte!
Elisa, Claudia e Andrea
Il laboratorio è stato realizzato all’interno del progetto europeo Erasmus plus CONCRIT – Community Narration 4 Critical Thinking, realizzato in Italia dalla Fondazione Labos, in cooperazione con le associazioni Binario 15 e Storie di Mondi Possibili.