– Ho detto piano!
– stella stellina
– vergognati e abbassa la voce!
– la notte si avvicina
– zitta, non parlare, non cantare, non hai il dritto, sei solo una femmina…
Corro nel corridoio, la luce va e viene, seguo la vocina di mia figlia che canta. O meglio, cantava prima che quella strana voce, prepotente e sconosciuta, le impedisse di farlo. Mi fermo e grido: “amore di mamma dove sei?”. Nessuna risposta, Ricomincio a correre ma il corridoio sembra allungarsi ad ogni mio passo, comincio a sudare, a sentire il mio battito e sussurro di nuovo: “dove sei?”. Improvvisamente davanti ai miei occhi appare un passeggino, comincio a tremare, respiro velocemente e mi avvicino lentamente. Lancio uno sguardo dentro il passeggino, un forte brivido…
Sono le due del mattino e dopo quell’incubo non riesco più a riaddormentarmi. Per prima cosa controllo i bambini, dormono come due angeli nei loro lettini. Poi mi preparo una camomilla che accompagni i miei pensieri. “Perché ho fatto quel brutto sogno? Non ho nemmeno mangiato qualcosa di pesante!”. Prendo il cellulare, cerco di trovare un’interpretazione. Ad alcuni può sembrare sciocco, ma io credo nei sogni, credo che nessun evento in questo mondo sia irragionevole e che ci sia sempre una causa per tutte le cose; secondo me ogni accadimento intorno a noi può essere un segno. Non solo cose visibili e tangibili ma anche cose virtuali e trascendentali possono avere un significato. Questa volta, però, desideravo dal profondo del cuore che si trattasse solo di un sogno disturbato causato dai miei pensieri o, almeno, che non avesse un brutto significato. E forse è proprio così… Anche Google mi tranquillizza spiegando che alcuni sogni nascono dalle nostre preoccupazioni e dai pensieri avuti nei giorni precedenti e che, in realtà, non hanno un’interpretazione particolare. “Che Dio ti benedica Google! Forse hanno ragione, devo smettere di pensare troppo”.
Credo di sapere da dove nasca questo incubo: più o meno un mese fa sono iniziate ad arrivare notizie terrificanti dal mio paese di origine, l’Afghanistan. Anche se noi afgani, tra attentati, violenze, invasioni e ingiustizie, ormai siamo abituati a sentire cose di ogni genere… Ma una notizia, in particolare, mi aveva colpito per la sua assurdità: il dipartimento dell’istruzione di Kabul aveva dato ordine a tutte le scuole di vietare alle ragazze sopra i 12 anni di cantare.
Come qualsiasi donna, ma anche come tutti gli uomini che hanno uno spirito libero, sono rimasta incredula. Non riuscivo a liberarmi dalla tristezza e di riflesso non potevo sbarazzarmi delle mille domande che mi passavano per la testa: “cosa c’è di sbagliato nella voce delle donne? Se non c’è niente di sbagliato, allora perché tutti questi sforzi per farle tacere? Di cosa hanno paura? E cosa si può fare per combattere contro questa ingiustizia?!”.
Ormai è l’alba e io sono ancora più convinta che devo smettere di pensare alle cose che non posso né controllare né cambiare. Il mondo non è uno spazio di felicità; è invece pieno di crudeltà e per poterlo sopportare è meglio adattarsi, dobbiamo accettare questa amara realtà. Mi ricordo anche una chiacchierata di alcuni giorni fa con una mia amica, la quale mi ha consigliato di non seguire più le notizie visto che sono una mamma e che ho bisogno di stare tranquilla. “Secondo me tu sei talmente pensierosa che se ti tolgono i pensieri di te non rimane un bel niente”, mi diceva ridendo. Forse un po’ esagerata, ma adesso che mi ritrovo all’alba pensierosa in cucina con una tisana in mano, non potrei darle tutti i torti.
La mia giornata scorre tra un caffè e uno sbadiglio. Nel pomeriggio, quando vado a riprendere mia figlia da scuola la trovo allegra come sempre. Lei è la mia vera medicina, i suoi occhi pieni di vita e la sua instancabile forza di risollevarmi ogni volta che ne ho bisogno. Mi tira su di morale e mi fa dimenticare tutta la stanchezza e l’ansia della notte in bianco che ho passato. Ma oggi c’è ha anche una sorpresa… Mi dice: “è un segreto che posso rivelarti solo domenica”. Ma io non resisto, mancano ancora tre giorni, quindi cerco di capire di quale segreto parli. “Amore sai che io e te non dobbiamo avere segreti!”. “Sì mamma, però la maestra dice che posso cantartela solo domenica perché è la tua giornata cioè la giornata di tutte le mamme”.
Ho capito che si trattava di una filastrocca per la festa della mamma, ovviamente dovevo esserne felice, ma inconsciamente sono stata di nuovo invasa da uno stato di angoscia. Per fortuna è ancora lei a distrarmi saltando sul sedile di guida dicendo “oggi guido io e ti porto a comprare tutte le cose che mi piacciono”. La lotta che faccio per convincerla che lei è ancora piccola per guidare dura giusto il tempo necessario a distrarmi da tutto e tutti.
La vita è bella quando cerchi di prenderla con leggerezza. Puoi godere del sole facendo una passeggiata vicino al fiume, prendere un gelato insieme ai tuoi cari, ridere e scherzare, programmare un weekend di divertimento con gli amici. E se per caso ti capita di accendere la tv e trovarti davanti a notizie brutte, la cosa migliore è cambiare canale e guardare un film comico. Dopo dormi tranquilla, facendo sogni d’oro e la mattina seguente potresti addirittura gridare a tutto il mondo che “LA VITA è BELLA”. Non so se sia questa la sensazione della spensieratezza; io per un paio di giorni ho cercato di assaggiarne un po’.
Facevo finta di essere indifferente per poter stare tranquilla ed ero convinta di fare la cosa giusta, dimenticando che “la pace”, per il mio popolo, è un luogo in cui da decenni è proibito entrare: lì nessuno può scappare dalla propria realtà. L’Afghanistan, nonostante non sia il luogo in cui sono cresciuta e manchi ormai da dieci anni, lo sento mischiato con il sangue che circola nelle mie vene. Anche se non voglio, lui mi trova facilmente e mi pervade con le sue tante, infinite sfumature.
È sabato pomeriggio e manca solo un giorno alla festa della mamma. Non ricordo se ero in cucina a preparare la merenda per i bambini o se ero in camera da letto a sistemare i capelli di mia figlia e a cambiarle il vestitino prima di andare a fare una passeggiata a Villa Pamphili. So solo che ero lì, nella mia casa sicura molto lontana da Kabul… La vita sembrava scorrere tranquilla, ma improvvisamente tutto cambia. Vengo a sapere da mio marito una notizia terribile. Parlano di un attentato, un’esplosione molto forte a Kabul davanti a una scuola femminile. Ci sono decine di morti e più di centocinquanta feriti. La maggior parte di loro sono studentesse… Poco dopo usciamo portando sulle spalle il peso di questa terribile notizia. Siamo al parco, fisicamente sto camminando in un posto dove in primavera sembra di abbracciare un pezzo di paradiso. La mia mente, invece, è all’inferno in quella scuola femminile.
La memoria mi riporta a un giorno nel passato: una giornata di primavera nel 2010. Ero da poco arrivata in Afghanistan, precisamente a Kabul, la capitale che porterò nel cuore per tutta la vita. Vivevo in quel posto meraviglioso, tra paura e speranza. La paura di non poter arrivare al giorno successivo e la speranza di cambiamento, di miglioramento. La stessa speranza che brillava negli occhi dei giovani e che giaceva nascosta nei cuori dei più grandi. La prima volta che ho riconosciuto questa speranza è stato negli occhi di una famiglia umile che abitava in un quartiere che si trova nella parte occidentale della città, abitata in maggior parte da Hazara. Mi ero appena iscritta all’università e nella nostra classe erano presenti diciannove ragazzi e solo due ragazze: io e questa mia amica di Kabul. Io non riuscivo a spiegarmi il motivo di questa disparità numerica: non ero sicura se dipendesse dal tipo di studi che avevo scelto (scienze politiche) o fosse perché in Afghanistan c’era ancora l’ombra dei talebani. Spesso le conseguenze di un governo dispotico sono le ribellioni e le rivoluzioni del popolo, ma se queste opposizioni falliscono, nel lungo periodo vivere sotto quel domino trasforma la società. Così è successo anche per le leggi disumane che i talebani hanno approvato soprattutto contro le donne: sono state interiorizzate.
Questa mia convinzione, insieme ai pettegolezzi che avevo sentito dai ragazzi afgani, mi portavano a tenere una certa distanza da loro e quindi la presenza di quella ragazza in classe per me era un’oasi di salvezza. Ma c’era un problema: lei non era mai puntuale, arrivava quasi sempre tardi e scappava appena le lezioni finivano. Le sue assenze mi hanno aiutato a conoscere bene gli altri compagni e a farmi ricredere su certe mie convinzioni: erano tutti bravi ragazzi e rispettosi nei miei confronti. Per molto tempo, però, quella ragazza è stata un punto interrogativo, finché è arrivato quel giorno.
Ero molto giovane ed abbinare bene i vestiti era la sfida di ogni mattina. Un giorno facevo una gran fatica a scegliere tra due sciarpe. “Metto quella che piace a me o quella che si abbina meglio con il vestito?”. Adesso, se ci ripenso, mi viene da ridere! Ma quel giorno ho fatto tardi per colpa della sciarpa e per recuperare tempo mi sono messa a correre tra la gente che mi guardava stranita. Io però preferivo essere osservata e giudicata da persone che non conoscevo piuttosto che perdere una lezione. Giro nella strada principale e mentre cerco di accelerare il passo… bam! Mi scontro con una ragazza che aveva in mano una scatola di uova. Per fortuna nessuna di quelle uova ha fatto una brutta fine. Io stavo lì impalata a guardare quella ragazza, nonostante avesse il viso coperto dalla sciarpa che lasciava intravedere solo i suoi occhi.
Malgrado quel goffo tentativo di nascondersi, io non potevo non riconoscere la mia unica compagna di classe: aveva lo stesso vestito che portava a scuola. Solo allora ho capito il motivo delle sue continue assenze: lavorava prima e dopo la scuola. Ero indecisa se salutarla o far finta di non averla riconosciuta. Non volevo che si sentisse imbarazzata per il lavoro che faceva. Ho pensato che se aveva il viso coperto sicuramente non voleva essere riconosciuta; e invece proprio lei si è fatta avanti per salutarmi. Quindi ho pensato che se non si vergognava di fare la venditrice di uova, allora doveva avere un altro motivo per nascondere il suo viso…
“Mio padre era un soldato e ha perso la vita in una battaglia contro i talebani – ha cominciato a raccontare per strada – Dopo la sua morte mia madre, nonostante fosse ancora molto giovane e potesse benissimo farsi una nuova vita sposandosi con un altro uomo che le corteggiava, ha deciso di rimboccarsi le maniche e fare sia da padre che da madre per noi. Lei lavora come addetta alle pulizie a casa delle persone ricche; l’unico suo desiderio è che noi studiamo e in futuro diventiamo donne indipendenti in modo da non dover fare nessun duro lavoro né dover sopportare un uomo violento. Sfortunatamente mia mamma ultimamente soffre di ernia del disco e per questo quando torna dal lavoro è completamente distrutta. D’altra parte, adesso che io studio all’università, le nostre spese sono aumentate, perciò vendendo uova cerco di alleggerire mia madre almeno di alcune spese. Lei però non vuole che io lavori, per questo mi copro la faccia, perché ho paura che se per caso un nostro conoscente mi dovesse vedere, potrebbe riferirlo a mia madre. Non vorrei mai ferire il suo orgoglio, voglio solo poterla aiutare in qualche modo”.
Sono rimasta molto colpita da ciò che avevo sentito e in quel momento, ripensando alla sciarpa, mi sono vergognata tanto del differente motivo del nostro ritardo a scuola. C’è voluto ancora un po’ di tempo prima che insieme riprendessimo la corsa verso l’università. Dopo la scuola ho deciso di nuovo di accompagnarla; un’altra scatola di uova è stata venduta tra le nostre risate e le chiacchere con i passanti. Non era affatto facile vendere per strada perché la gente sapeva benissimo che poteva comprare le uova in un negozio a prezzo ridotto. Più tardi ci siamo reciprocamente invitate a casa per pranzo: lei insisteva, io insistevo, ma alla fine lei ha detto qualcosa che mi ha completamente sigillato la bocca. “Non ti preoccupare, vero che siamo poveri ma ti assicuro che ci sarà qualcosa da mangiare pure a casa nostra”. Ed è così che sono finita a pranzare a casa loro, una piccola tana piena di semplicità ma ugualmente felice. La prima di tante altre volte in cui ho mangiato con loro: lei, sua mamma e la sua sorellina che all’epoca aveva cinque anni. Una bambina dolce che non si stancava di chiacchierare mentre giocava con il suo passeggino giocattolo costruito dalla mamma con oggetti riciclati.
Io, non avendo fratellini piccoli, non sapevo come interagire con lei e quindi le ho fatto la solita domanda che mi facevano sempre da bambina: “cosa vuoi fare da grande?”. Lei non ci ha pensato nemmeno un secondo prima di rispondere: “voglio diventare mamma!”. La sua risposta mi ha fatto una grande tenerezza, talmente tanta che ho ancora davanti ai miei occhi la sua faccia piena di allegria. Al contrario, la sorella non era contenta della sua risposta: “ma che dici scema, fare la mamma viene mica considerato un lavoro!”. La piccola, però, era convinta che fare la mamma fosse il lavoro più bello del mondo ed io le ho dato ragione visto che avevano una mamma esemplare, una donna forte, sorridente e ospitale.
Passano anni e mentre il padrone del destino ogni giorno scrive la storia della mia vita qui in Italia, lontano dagli occhi, ma non dal cuore, quella piccola bambina è cresciuta e nell’arco di questi anni ha avuto le idee sempre più chiare. La mia amica, quando parliamo al telefono mi racconta sempre di lei, dei suoi risultati a scuola e della felicità che ogni giorno regala alla loro mamma che a sua volta è molto fiera di lei. Adesso è molto determinata e dopo il liceo vuole andare all’università e studierà medicina. Ultimamente parla pure del suo grande desiderio, quello di ottenere lo stesso risultato di Shamsea Alizada (la ragazza che ha ottenuto il punteggio più alto all’esame di ammissione dell’università). Tra tutte le cose che so di lei, una adesso mi spaventa tanto: sapere che anche lei frequenta la stessa scuola dove oggi c’è stato quell’orribile attentato. Mi si stringe il cuore! Appena ho saputo della notizia ho cercato di contattare la mia amica ma nessuna risposta: né WhatsApp né Telegram. Nessuno di questi mezzi di comunicazione è mai stato così muto come oggi.
Cammino e penso, prego e cammino. La notte finalmente decide di convogliare la luce del giorno per dominare ancora una volta sulla terra stanca. Stanca di sentire le urla e sopportare la disperazione delle donne che hanno perso la speranza, la luce dei loro occhi. Un’altra notte nera in bianco per me e chissà ancora quante altre, passa silenziosa. Tramite un’amica in comune, vengo a sapere che la sorellina della mia cara amica non c’è più in questo mondo brutto, crudele e spaventoso… Insieme a lei, altre 84 persone innocenti hanno perso la vita e 147 persone sono rimaste ferite senza avere nessuna colpa, tranne quel desiderio di voler studiare per migliorare il mondo per loro e per gli altri. La vera colpa è forse non volere stare in silenzio.
Penso a loro ed a più di 200 mamme in lutto che nel giorno della festa della mamma hanno perso questo bellissimo ruolo, oppure alle mamme che nel corridoio di un ospedale temono di perderlo da un momento all’altro. Non riesco a tenermi le lacrime, ancora una volta scendono queste gocce salate… Dopo ogni strage trovi le notizie ovunque ma poi spariscono, restano sepolte nella memoria. Si va di nuovo a cercare i bei posti per dimenticare in che brutto mondo viviamo, pensiamo di nuovo al divertimento. Eh beh, sì certo, finché siamo vivi dobbiamo vivere… Ma fino a quando si può andare avanti così? Prima del Covid pensavamo di essere lontani da tutte le miserie: “noi siamo in Europea in tutta sicurezza, la guerra è solo uno spettacolo che vediamo nei telegiornali”. Invece adesso a volte mi chiedo se il Covid non rappresenti la punizione per tutte le nostre colpe… A prescindere dalla risposta che non so quale sia, io di certo non voglio più restare in silenzio. Il sangue perso di quelle ragazze non mi lascia più. Comincio a scrivere, l’unico modo che conosco per alzare la voce, sperando di unirmi a tutte le voci femminili che non vogliono tacere, scrivo per tutte le urla soffocate nella gola.
È domenica, mia figlia mi abbraccia, mi regala dei bacini e canta la filastrocca tanto attesa:
Stella stellina
La notte si avvicina
La fiamma traballa…
Fatema Qasim
Da sempre migrante, di origine Afghana, cresciuta in Iran, quando frequentava l’università nel campo dell’ingegneria gestionale a Isfahan, i suoi genitori decisero di tornare nella loro patria, L’Afghanistan, e lei che sempre sognava di vedere il suo paese d’origine si unisce a loro. Ha vissuto per due anni a Kabul dove ha studiato scienze politiche con l’obbiettivo di poter un giorno difendere i diritti delle donne afghane; ma nel settembre 2011 il destino l’ha portato in Italia con Kabul sempre nel cuore.
Copyright delle foto Tania/Contrasto